Di Natura Umana e Focene Coreografe: per sfatare qualche mito.
Parlando di “politica“ capita ogni tanto sentire tirato fuori il discorso sulla natura umana. Questo argomento è utile a distendere la tensione comunicativa e può essere, nel peggiore dei casi, l’unico modo per mettere fine a una discussione che rischia di andare per le lunghe. L’idea di base è (in sintesi) la seguente: “va bene difendere l’utilità delle politiche assistenziali, è bella l’idea di un reddito di base ed è interessante la prospettiva di un mondo in cui si lavora meno… però la costituzione della psiche umana è fatta in modo tale che tutto ciò non possa essere applicato senza che prima o poi qualcosa vada storto”. Ci possiamo fare poco: siamo esseri egoisti, ricerchiamo il nostro benessere e siamo votat* alla nostra conservazione, spesso a scapito di chi ci circonda. Questa concezione non esclude che possiamo controllare la nostra sete di abbondanza, esiste un contratto sociale che ha esattamente questo scopo ma che può solo incatenare, non certo prescindere da questo stato di natura tanto egocentrico quanto perpetuo.
Rimuginando su queste questioni mi capitava in passato di riportare questa idea ad un autore che probabilmente ai tempi non riuscivo ancora a interpretare efficacemente. Mi riferisco a Spinoza il quale, nella sua Etica, ha effettivamente cercato di rispondere alla domanda sulle qualità della natura umana, delle sue passioni e dei suoi vincoli. L’umano tende spesso a limitare al proprio sé la cerchia delle preoccupazioni, e le motivazioni che ne guidano i comportamenti risultano spesso egoistiche. Questa lettura cucita su Spinoza culmina nella sua collocazione nel filone degli autori che verranno definiti precursori del liberalismo e del darwinismo sociale. Questo ammasso di pregiudizi ha iniziato a vacillare nel momento in cui ho preso in mano i resoconti biografici, i quali mi hanno fornito un ritratto completamente diverso del filosofo olandese. Un uomo mite, gentile, pacato, quasi austero che difficilmente ci si immagina potesse produrre pagine così prolifiche sul desiderio e sulla potenza come motore di vita. Egli era profondamente innamorato di una vita che gli aveva riservato in verità molti dispiaceri. Una personalità simile l’avrei ritrovata successivamente in Mark Fisher che, al contrario, dalle sue parole fa trasudare quella malinconia e quel leggero senso di stanchezza, intrisi di una carica paradossalmente rivoluzionaria che infastidisce ancora oggi una buona parte della sinistra. Sia questo perché il manifesto di UnaBomber si trova online molto facilmente o perché si è ancora condizionati da un subdolo maschilismo che ci presenta con occhio critico un uomo che politicizza il proprio malessere psicologico (più probabile).
La questione su cui ho a lungo riflettuto è la seguente: siamo forse in quanto umani naturalmente egoriferit*, ed è forse una verità incontrovertibile della nostra biologia il fatto che per sopravvivere ci troviamo in una lotta perenne con l* altr*? Per iniziare può essere utile fare un passo indietro. Nel momento in cui discutiamo di natura stiamo proponendo (in maniera non sempre legittima) una distinzione implicita con la sfera culturale, ovvero il frutto dell’apprendimento. Se il focus del discorso è il patrimonio comportamentale di un individuo o di una popolazione, questa distinzione rimane valida solo fino ad un certo punto. È infatti difficile chiarire una volta per tutte, nello spazio della complessità psicologica, quali comportamenti siano completamente innati e quali siano appresi culturalmente. Vero è che nella storia della psicologia, con l’obiettivo di spiegare meccanismi neurofisiologici primordiali, si è spesso fatto uso di modelli animali e così si tenterà di fare anche in questa sede. Già da subito bisogna ribaltare la distinzione fatta poco sopra, visto che ciò su cui ci si concentrerà è proprio il meccanismo dell’apprendimento in un’ottica critica verso questo dualismo. La definizione di apprendimento che propongo è quella di una predisposizione al cambiamento in conseguenza di un evento esterno. Il vivente è tale nella misura in cui cambia non per semplice effetto di un’azione esterna, ma perché è un sistema in grado di riorganizzarsi in risposta a uno stimolo, modificando in maniera peculiare il proprio comportamento. È in effetti questo, in ultima analisi, uno degli scopi del sistema nervoso negli animali. A questo fatto si aggiunge che apprendere non è necessariamente qualcosa di positivo visto che, pur essendo una capacità adattiva, non genera sempre benessere. La stessa patologia mentale, al di là delle predisposizioni biologiche, è un fatto di apprendimento, poiché rappresenta il rimasuglio di una risposta comportamentale che un tempo poteva risultare adattiva ma che ora non è più tale.
Come grimaldello per la concezione egoistica dell’umano assumo il modello interattivo, pur contestato ma degno di approfondimento, del doppio legame per una cui semplice spiegazione mi avvarrò dell’aiuto di ChatGPT.
“Certo, la teoria del doppio legame della scuola di Palo Alto è una teoria della comunicazione umana che si concentra sulle situazioni in cui una persona riceve messaggi contrastanti o contraddittori da parte di un'altra persona. Questi messaggi possono essere sia verbali che non verbali, e possono creare una situazione in cui la persona ricevente è bloccata e non sa come rispondere.
Per esempio, immagina che tu sia in una riunione di lavoro e il tuo capo ti dica "apprezzo il tuo lavoro, ma devi migliorare". Questo è un messaggio contrastante perché da un lato ti viene detto che il tuo lavoro è apprezzato, ma dall'altro ti viene detto che devi migliorare. Questo può creare confusione e incertezza sulla tua performance, e non saprai come rispondere o cosa fare per soddisfare le aspettative del tuo capo.
Secondo la teoria del doppio legame, queste situazioni possono essere dannose per la comunicazione e possono portare a una serie di conseguenze negative, come l'ansia, la frustrazione e la confusione. La teoria suggerisce anche che queste situazioni possono essere risolte solo se il mittente dei messaggi contrastanti fornisce un chiarimento o una spiegazione per la contraddizione.”
Ha quasi centrato il punto, perché si dimentica di sottolineare almeno due punti focali. Il primo emerge in maniera relativamente chiara dal suo esempio. Non basta che i due messaggi siano in contrasto ma è necessario anche che si collochino in due diversi livelli comunicativi. Nell’esempio: alla constatazione che afferma l’apprezzamento del lavoro se ne aggiunge un’altra che comunica ad un livello direttivo l’esatto opposto. Ma il punto principale non è tanto nella potenziale carica patologica di questo stile comunicativo quanto nel meccanismo che la rende possibile. Questo è determinato da ciò che potremmo definire una forma di “ammonizione all’apprendimento”. Qualsiasi comunicazione è definibile come un evento che genera informazione, in quanto tale promuove in chi la riceve una forma di apprendimento. All’affermazione “Nice job!”, un rinforzo positivo, dovrebbe corrispondere un apprendimento che validi il modello comportamentale e inviti a proseguirlo. Se tuttavia a ciò si aggiunge una squalifica di quel modello, il processo di apprendimento si disfa ed è a questo punto che si può far strada l’esito patologico. È da considerare che siamo espost* costantemente a modelli comunicativi siffatti, tanto da poter dire che siano una parte costitutiva del modo di interagire tra viventi. Quelle che Bateson definisce sindromi transcontestuali, esiti di simili modelli interattivi, hanno valenze molteplici e tra queste vengono annoverate anche le personalità creative, artistiche e comiche, oltre che al quadro tipico della schizofrenia.
Possono esistere dunque situazioni simili in cui una naturale predisposizione del vivente ad attraversare contesti sistemici viene deviata da un esito patologico ad uno positivo. L’esempio che si propone è quello di una situazione sperimentale studiata dallo stesso Bateson presso l’Oceanic Institute delle Hawaii[1]. Si tratta della storia dell’addestramento di una femmina di focena (Steno bredanensis). L’esemplare oggetto dello studio possedeva – prima dell’esperimento – un repertorio piuttosto ampio di risposte modellate, ma il suo comportamento spontaneo non era mai stato rinforzato. La prima sessione era finalizzata ad addestrare la focena a considerare come rinforzo il fischio dell’istruttore, al quale sarebbe seguito il premio del cibo. I premi non ottenuti in ciascuna sessione venivano elargiti alla fine della giornata. A partire dalle sessioni successive venne applicato un protocollo che prevedeva la somministrazione del rinforzo ogni qualvolta la focena mostrasse all’istruttore un comportamento nuovo, mai eseguito in nessuna delle sessioni precedenti. Dunque, il comportamento che era stato rinforzato durante la prima sessione non venne premiato una seconda volta. In risposta a questa “violazione”, da parte dell’istruttore, delle norme che secondo la focena regolavano il contesto di interazione, questa eseguì un colpo di coda, tipica espressione di dissenso. Tale comportamento fu rinforzato, così come i nuovi comportamenti che venivano eseguiti spontaneamente durante le sessioni successive. Dopo 32 sessioni, il repertorio comportamentale della focena divenne talmente complesso e innovativo da superare la capacità degli osservatori di discriminare ulteriori variazioni. Questi comportamenti vennero poi suddivisi dai ricercatori in 16 moduli, di questi addirittura 4 contenevano comportamenti che non erano mai stati osservati in esecuzione spontanea in questa specie. La focena non aveva sviluppato una forma di comportamento patologico bensì era diventata maggiormente creativa nel suo repertorio comportamentale[2].
Ma cosa c’entra tutto ciò col nostro discorso? La manifestazione di nervosismo mostrata dal cetaceo non fu l’unica durante l’esperimento, a dimostrazione del senso di sofferenza e disagio che si può stimolare in un mammifero se lo si mette in condizione di sbagliare circa le regole che danno significato a una relazione rilevante. Fu per mezzo di questa sofferenza che la focena apprese dell’esistenza di un più generale contesto di contesti, che premiava non l’esecuzione di determinati comportamenti, ma la disponibilità a modificarli ad ogni sessione. Questi risultati offrono input di ragionamento sulle modalità in cui un qualsiasi organismo vivente, indipendentemente dalla specie, faccia esperienza delle relazioni rilevanti. La focena per poter evitare l’esito patologico ha dovuto basarsi sull’humus che qualificava la comunicazione con l’istruttore. Questo terreno, questo spazio relazionale è stato sapientemente manipolato dall* sperimentatric* in modo tale da assicurare all’animale che un qualsiasi suo errore non l’avrebbe per questo privata del premio in cibo. Possiamo sostenere che alla focena sia stata riconosciuta una forma di sussistenza basilare che, permettendole di qualificare come positiva la relazione con l’istruttore, le ha reso possibile apprendere efficacemente dai propri errori. Può essere difficile da credere, ma sembra proprio che una sottile tonalità relazionale positiva abbia modificato gli esiti di un modello comunicativo patologico trasformandolo in un processo di sviluppo e crescita!
Possediamo molte convinzioni riguardo a ciò che guida il comportamento dei viventi, questo è infatti uno dei principali oggetti di influenza di ciò che si definisce folk psichology. Una serie di premesse intuitive, sulla cui base costruiamo le nostre opinioni, descrivono gli organismi viventi come entità monadiche, chiuse nella loro mente e in grado di interfacciarsi al mondo esterno nella sola ottica della rappresentazione finalizzata allo sfruttamento. Questa visione, ereditata dall’affermazione storica del soggetto razionale, ancora oggi oscura una realtà irriducibile della nostra esperienza, ovvero il suo essere intrinsecamente bisognosa di relazione. Il modo in cui conosciamo, agiamo o semplicemente esistiamo è sempre condizionato da una tessitura di interazioni che ci siamo adattati a utilizzare ma che preferiamo ignorare per amor di semplicità. C’è stato sicuramente un momento evolutivo in cui questo paradigma di diffidenza è stato adattivo, ma ad oggi con l’avanzamento dello sovrastrutture culturali anche quelle psico-biologiche sono chiamate a stare al passo. La natura umana non potrà dunque essere semplicemente quell’insieme di istinti egocentrici che abbiamo ereditato sulla scia della filogenesi, ma dovrà essere considerata alla stregua di una struttura ibrida, disorganizzata, aperta all’influenza e transcontestuale in un senso propulsivo. Una natura capace di sopportare le increspature di anormalità a cui la nostra generazione è e sarà sempre più esposta, per poterle affrontare con quella flessibilità di cui oggi è stata maestra la nostra focena.
[1]BATESON, G., Verso un’ecologia della mente [1972], tr. it. di G. Longo, Adelphi, Milano 1976, pp. 322-3.
[2] Per l’articolo originale. K. PRIOR, R. HAAG, J. O’RIELLY, The creative porpoise: training for novel behavior, «Journal of the experimental analysis of behavior», Vol. 12, No. 4 (1969), p. 654.