Immaginate di trovarvi negli anni ’50, un’era dominata dalla musica jazz e dalle sue infinite varianti stilistiche. Ad un certo punto comincia a farsi strada un nuovissimo stile musicale: il rock’n’roll. Dall’underground attraversa con un’estrema velocità gli spazi di ascolto fino a invadere il mainstream e a trasformare, in pochissimi anni, l’intera cultura musicale di un decennio, gli anni ‘60. Si tratta di un vero e proprio shock, e più precisamente Mark Fisher lo definisce “shock del futuro”: un senso di spaesamento psicologico e sociale estremamente acuto, la reazione naturale di fronte a un progresso culturale talmente veloce da far sembrare che le innovazioni provengano dal futuro.
Fra i numerosi argomenti trattati negli scritti di Mark Fisher, lo shock del futuro è forse quello che implicitamente ritorna sempre a galla. Nel corso degli anni ’60, ’70 e ’80 Fisher osserva un’incessante innovazione, un continuo spostamento in avanti dei limiti del possibile, come se ogni novità culturale provenisse dal futuro. Ogni volta si tratta di un vero e proprio shock. La tesi di Fisher è che l’epoca fordista, grazie alle forti politiche socialiste e alla messa in comune di buona parte del prodotto sociale, promuovesse una forte accelerazione del progresso culturale. Per questo ogni novità sembrava non appartenere al presente, bensì al futuro, causando un shock culturale generazione dopo generazione.
In Spettri della mia vita, pubblicato nel 2013, Fisher vuole dimostrare come questo sentimento di shock affronti una lenta ma inesorabile scomparsa. L’avvento del capitalismo neoliberale e la fine del fordismo, dagli anni ’80 in poi, avrebbero causato un progressivo rallentamento della velocità di produzione di innovazioni culturali. Per diverse ragioni, tra le quali possiamo annoverare la privatizzazione dei mezzi di produzione cognitivi e la riduzione di tempo dedicato alla produzione artistica, il futuro sembra scomparire. Per dirla con le parole di Bifo, che Fisher cita all’interno dell’opera, «quando dico futuro non mi riferisco alla direzione del tempo. Penso piuttosto alla percezione psicologica che emerge dalla situazione culturale di progressiva modernità, alle aspettative culturali elaborate nel lungo arco della civiltà moderna, che hanno raggiunto il loro picco dopo la seconda guerra mondiale.»
Fisher spiega il punto con un esempio: «immaginate che un disco pubblicato nell’ultimo paio d’anni venga spedito nel passato, diciamo nel 1995, e trasmesso alla radio. È difficile immaginare che quel pezzo sia in grado di produrre un qualunque tipo di turbamento negli spettatori di allora. Ciò che al contrario probabilmente scioccherebbe il nostro pubblico del 1995 sarebbe la riconoscibilità dei suoni: davvero la musica è cambiata così poco nei 17 anni successivi? Confrontate la situazione con il rapido avvicendarsi di stili verificatosi tra anni ’60 e ’90: se nel 1989 aveste fatto ascoltare alla gente un disco di jungle prodotto nel 1993, quei suoni sarebbero sembrati talmente nuovi da spingerla a ripensare ciò che la musica era o poteva essere.»
Il concetto di Fisher non riguarda solo il progresso culturale. Questo progressivo rallentamento è il sintomo di una più generale cristallizzazione dell’immaginario umano, un disorientamento capace di causare una perdita del senso di appartenenza alla storia. Con l’avvento del neoliberismo - la più radicale ideologia individualista che il genere umano abbia mai sperimentato - gli esseri umani hanno perso la capacità di “inventare il futuro”, tanto nell’industria musicale quanto in proposte politiche e ideologiche alternative al modello capitalista. Rispetto all’epoca fordista, dice Fisher, la sensazione è quella «di essere arrivati tardi, di vivere dopo l’età dell’oro. Se mettete a confronto il terreno infruttuoso dell’epoca attuale con la fecondità dei periodi precedenti, verrete immediatamente tacciati di “nostalgia”.» Proprio la nostalgia che Fisher riconduce a un “futuro che non c’è più”.