Alex Williams è docente in sociologia alla City University di Londra. Nick Srnicek è scrittore e accademico canadese, anch’egli professore a Londra. Nel 2015 scrivono un’opera di centrale importanza in tutto il pensiero accelerazionista: Inventare il futuro: per un mondo senza lavoro, destinata a porre le basi per una nuova strategia politica della sinistra. Si tratta, in un certo senso, di uno sviluppo del Manifesto Accelerazionista, anch’esso scritto dai medesimi autori, in quanto ne rappresenta un completamento sia pratico che descrittivo, finalizzato a offrire un indirizzo pragmatico nella lotta contro il neoliberismo.
Annoverabile tra i libri di filosofia, per le sue forti implicazioni sui concetti di universale, iperstizione e egemonia, oltreché di economia, per i molti dati messi a disposizione circa gli effetti economici della piena automazione, in questa sinossi noi suggeriamo debba essere considerato un manuale di strategia rivoluzionaria. Attraverso un excursus che parte da un’analisi critica degli insuccessi della sinistra contemporanea per poi analizzare le ragioni strategiche che hanno permesso al neoliberismo di vincere, giunge alla definizione delle principali logiche necessarie per mettere in atto la transizione verso il post-capitalismo. E tutto senza mai utilizzare la parola “accelerazionismo”.
Inventare il futuro è cioè una guida pratica alla rivoluzione post-capitalista. Una guida che sta ben attenta a non sbilanciarsi con precise indicazioni metodologiche o proposte di lotta, cercando piuttosto di suggerire dei vettori orientativi, di fatto una mappa cognitiva che possa orientare le lotte nella direzione dell'efficacia. Al punto che si può dire che la parola chiave del'opera sia l’efficacia.
Scorrevole alla lettura, oltre al fatto che non richiede conoscenze pregresse di alcuna specificità, il libro è corredato da oltre 50 pagine di note al testo, con un’attenzione all’illustrazione delle fonti che stupisce per la sua meticolosità anche il più assiduo dei lettori. Proprio la sua ricchezza bibliografica è dunque un elemento che non deve essere considerato secondario, poichè costituisce un’importante porta di ingresso verso una pluralità di autori e pensatori - giusto per citarne uno, il post-marxista argentino Ernesto Laclau - che noi sentiamo e consigliamo di approfondire poichè importanti contributori del pensiero accelerazionista.
Procediamo dunque a offrirvi una sinossi di Inventare il futuro, per introdurvi alla lettura di una delle più importanti opere del pensiero accelerazionista.
Il libro si apre, nei primi due capitoli, con un fortissimo atteggiamento di critica nei confronti della sinistra contemporanea, accusata di mettere in campo delle pratiche inefficaci che non riescono ad arrestare, quanto al massimo a rallentare, l’avanzata senza sosta del capitalismo neoliberale e delle sue ondate di privatizzazioni, deregolamentazioni e smantellamento del Welfare State. Anche attraverso una pluralità di esempi - in particolare il caso di Occupy Wall Street, che nel 2011 aveva dimostrato una capacità rivoluzionaria di straordinario potenziale in tutto il mondo - gli autori si impegnano in un’analisi strutturale circa le ragioni per le quali tali lotte non riescano, nonostante tutto, a mettere veramente in ginocchio il sistema capitalista nella sua organicità.
"«Almeno abbiamo fatto qualcosa» è il grido di battaglia di coloro che privilegiano l'autostima piuttosto che un'efficace azione"- Manifesto Accelerazionista
Secondo tale analisi le proteste cadono nell’inefficacia a causa di quello che gli autori chiamano “carattere ritualistico” della sinistra contemporanea. In altre parole, focalizzandosi sia sullo scopo delle proteste in sè, sia analizzando il tipo di comunicazione che viene diffuso dai media durante questi momenti, la tesi degli autori è che ci sia un’eccessiva enfasi sull’aspetto emotivo delle proteste, e non piuttosto sul fatto che esse riescano o meno a portare a casa dei risultati. Come anche viene affermato nel Manifesto Accelerazionista: «"Almeno abbiamo fatto qualcosa” è il grido di battaglia di coloro che privilegiano l’autostima piuttosto che un’efficace azione».
La conseguenza di questo atteggiamento è che le proteste portano a dei falsi successi, e ciò anche a causa del fatto che tali azioni si svolgono proprio all’interno di quello stesso sistema neoliberale che esse stesse tentano di combattere. Le proteste finiscono per trasformarsi in puri “meccanismi di sopravvivenza”, più orientate a resistere agli attacchi del capitalismo piuttosto che a costruire una vera e propria alternativa.
L’insieme di queste osservazioni non si esaurisce nella pura critica in stile postmoderno, ma subito si converte in un’analisi sistemica delle sue ragioni, per tentare di trovare una soluzione. Prima di tutto a questo atteggiamento della sinistra viene assegnato un nome: folk politics. “Folk”, appunto, poichè sempre orientato al locale, all’immediato, incapace di costruire una visione di ampio raggio che sia profondamente alternativa al capitalismo. E ancor più folk poichè incapace di sognare, di costruire un progetto che sia abbastanza lungimirante da non guardare al singolo e specifico attacco subito dal Capitale, ma piuttosto che sia in grado di costruire, sia teoricamente che praticamente, le infrastrutture necessarie per fronteggiare il capitalismo su scala globale.
Analizzando e scomponendo il concetto di folk politics, Williams e Srnicek approfondiscono in particolare il concetto di “immediatezza concettuale”, cioè l’incapacità di pensare in termini strutturali a un’alternativa complessa, una complessità che è però di fondamentale importanza proprio perchè necessaria per fronteggiare un sistema - quello capitalistico - che appunto dalla complessità trae la propria caratterizzazione. Secondo gli autori, infatti, a partire dagli anni ’70 il sistema economico e sociale, anche attraverso la globalizzazione e il progresso tecnologico, è diventato sempre più complesso, rendendo sempre più inattuali e inefficaci i modi di ragionare e di agire tipici del passato. Come risultato, la discrepanza tra l’immediatezza concettuale della sinistra e la complessità del sistema tardo-capitalista è oggi la principale causa di quel sentimento di disconnessione - e di impotenza - che noi sperimentiamo di fronte ai complessi meccanismi del potere.
In sintesi, se volessimo riassumere in poche parole il contenuto di questa prima parte dell’opera, si potrebbe dire che la sinistra pecchi nella capacità di pianificare una strategia efficace, senza la quale è però chiaramente destinata ad un declino inesorabile - del resto già in corso da tempo. Pianificare una strategia significa però prima di tutto essere capaci di rivoluzionare i propri paradigmi, sia teorici che pratici, e anche quelli che hanno storicamente caratterizzato l’identità della sinistra stessa. Significa, in altre parole, avere la severità intellettuale di analizzare se stessi per imparare ad andare oltre. Significa, in ultima istanza, avere il coraggio di ripensare radicalmente il modo in cui possiamo sperare di superare una volta e per tutte il capitalismo.
Dopo aver analizzato da un punto di vista strutturale le principali cause dei continui fallimenti della sinistra, Williams e Srnicek si rivolgono ai successi della destra. In particolare: la costruzione dell’egemonia neoliberale. Il neoliberismo infatti non è considerato qui come un esito storico necessario, anzi. Prima degli anni ’70 il pensiero neoliberale era un segmento ideologico molto marginale, all’interno di uno scenario globale in cui l’ideologia dominante era quella keynesiana. «Oggi siamo tutti keynesiani» fu una frase pronunciata proprio da Milton Friedman - uno dei padri fondatori del neoliberismo - e se oggi siamo arrivati ad affermare il contrario (cioè che siamo tutti neoliberisti) è da additare alle straordinarie capacità strategiche messe in campo proprio dai pensatori neoliberali, tra l’altro all’interno di un arco temporale estremamente ampio.
La tesi è insomma che il neoliberismo sia stato pianificato - o meglio costruito - attraverso un progetto di stampo egemonico, e per dimostrarlo gli autori ripercorrono la storia dell’avvento del neoliberismo con estrema minuziosità, scavando indietro nel tempo e analizzandone le più importanti scelte strategiche. Ad avvalorare la loro trattazione vi sono tutt’al più una pluralità di opere da cui attingono con frequenza, come ad esempio Breve storia del neoliberismo di David Harvey, La nuova ragione del mondo di Dardot e Laval, o l’articolo accademico di Jamie Peck Constructions of neoliberal reason, pubblicato dalla Oxford University Press nel 2010. Tutte letture che raccomandiamo poichè fondamentali per avere una chiara comprensione della tematica.
Entrando nel dettaglio, la storia del neoliberismo affonda le sue radici nel pensiero liberale viennese degli anni ’20, in quello di Chicago degli anni ’30, e ancor più nel pensiero ordoliberale degli anni ’30-40. Ma fu Hayek l’iniziatore del percorso egemonico di questo pensiero, quando nel 1947 conobbe un ricco uomo d’affari svizzero il quale gli diede la possibilità economica di fondare la Mont Pelerin Society, un gruppo chiuso di intellettuali che si impegnarono nella propagazione di questa ideologia. L’atteggiamento di questa architettura intellettuale fu fin da subito orientata ad una programmazione a lunghissimo termine, rifiutando qualsiasi folk politics che fosse orientata ai singoli problemi - seppur importanti - del presente, per concentrarsi invece sull’edificazione di una prospettiva economica sistematica e coerente.
"Il nostro sforzo è diverso da un qualsiasi incarico politico, dal momento che si tratta di un progetto a lungo termine, mirato non tanto a mettere in pratica ciò che è immediatamente possibile, ma ad articolare quelle convinzioni che devono diventare popolari affinchè i pericoli che al momento minacciano la libertà individuale possano essere evitati"- Hayek
All’interno di questa grande visione i neoliberisti seppero fare scelte strategiche molto importanti. Gli autori mostrano come il costante e meticoloso lavoro accademico permise loro di plasmare l’istruzione economica universitaria, mentre l’ampia produzione e diffusione di think tank fu fondamentale nell’influenzare le misure politiche. In una dimensione più mainstream, invece, fu notevole la capacità dei neoliberisti di muoversi a livello di comunicazione: fecero ampio uso di figure pubbliche per manipolare i media, mentre la produzione e diffusione di brevi pamphlet in stile semi-utopico, facilmente accessibili al pubblico, furono determinanti per modificare i termini del dibattito pubblico. Alla fine, quando il modello keynesiano-fordista affrontò la dura crisi degli anni ’70, il pensiero neoliberista aveva già costruito un’infrastruttura ideologica e materiale talmente forte ed efficace che la conquista dell’egemonia mondiale appariva ormai come un esito naturale di questo processo. Il neoliberismo aveva dimostrato che una pianificazione strategica di ampio respiro fosse la scelta vincente per conquistare l’egemonia globale e modificare permanentemente il sistema socio-economico dominante.
È chiaro che tali successi non vengono in quest’opera affrontati a puro scopo commiativo, ma sono analizzati in qualità di strumenti utili per una pianificazione strategica che sia al servizio di un programma di emancipazione della sinistra. È in questo senso dunque che gli autori si concentrano sul concetto di modernità, un concetto che - proprio da un punto di vista politologico - da sempre riveste il ruolo di nucleo narrativo fondamentale nelle trasformazioni storico-sociali. Il successo strategico del neoliberismo è infatti anzitutto riconducibile alla sua capacità di essersi appropriato del concetto di modernità, e dunque di progresso, al punto da averne tratto la legittimazione necessaria per il suo avvento nella storia. È stata l’equivalenza “Capitalismo = modernità” a permettergli di ottenere una posizione di egemonia a livello globale. Un’auto-narrazione, è chiaro, ma che ancora oggi agisce a livello psicologico così in profondità da essere capace di disinnescare l’emersione di ogni possibile idea alternativa, lasciando al capitalismo il ruolo di ideologia dominante.
Sull’onda dello stesso ragionamento, gli autori affrontano anche il concetto di libertà e ne dimostrano la centralità all’interno di un percorso meta-narrativo che si possa definire strategicamente efficace. “Libertà = emancipazione”, e dunque evoluzione, progresso, modernità. Si tratta anche qui di un paradigma di fondamentale importanza nella lotta rivoluzionaria, del quale il capitalismo neoliberale ha saputo farsi portatore in contrapposizione al modello sovietico totalitarista, che proprio in quegli anni nei termini della libertà individuale risultava assai perdente. Se il neoliberismo ha saputo conquistare una tale posizione di egemonia a livello globale - sostengono gli autori - ciò è dovuto proprio all’approccio strategico lungimirante e programmatico che, nel corso del tempo, gli ha permesso di impossessarsi del concetto di libertà - così come quello di modernità - arrivando così a imporsi come l’unico paladino credibile in grado di guidare l’umanità verso il futuro.
È chiaro, di fronte a queste analisi di carattere storico-politico, che l’insieme di queste strategie messe in campo dal neoliberismo devono essere pienamente apprese dalla sinistra affinché essa possa riconquistare una posizione egemone a livello globale.
Capire in che cosa si sta sbagliando e allo stesso tempo imparare da chi è stato più bravo di noi è importante, eppure è del tutto inutile se non si ha ben chiara la direzione da seguire. “Inventare il futuro” si apre dunque, nei capitoli dal 4 all’8, ad un’ampia trattazione circa il percorso che la sinistra deve intraprendere per dirigersi verso l’obiettivo del superamento del capitalismo. Il vettore principale è uno: la crescente automazione dei processi produttivi. Un’automazione inesorabile, del resto storicamente sempre dettata dal progresso tecnologico, ma che nel XXI secolo - data l’elevata velocità dello sviluppo tecnologico - si appresta a divenire la principale ragione della crisi secolare del capitalismo.
È proprio qui che l’opera viene dai più considerata come un trattato di carattere economico, poichè gli autori si lasciano ad un’ampia descrizione dei fenomeni puramente quantitativi che - anche attraverso una prospettiva storica - delineano le trasformazioni in atto tra tecnologia, lavoro e produzione. L’esito di questa analisi è molto chiara: un'enorme ondata di disoccupazione tecnologica sta per scagliarsi sull’umanità, aprendo le porte per l’iperstizione che guiderà il progresso rivoluzionario del XXI secolo: il post-lavorismo. Si tratta di un modello socio-economico in grado di liberare finalmente l’umano dalla schiavitù del lavoro necessario, e che oltre a costituire - come dicono gli autori - un mezzo che «per lo meno ci faccia uscire da questo turbo capitalismo neoliberista», si afferma di fatto come la principale visione del futuro rivendicata da ogni pensatore accelerazionista.
La strada da seguire verso questa visione del futuro è ben tracciata da 4 rivendicazioni esplicite. La prima è proprio la piena automazione: «una rivendicazione utopica che mira a ridurre il più possibile la quantità di lavoro umano necessario». Tale rivendicazione non deve essere accettata come una necessità storica inevitabile e dettata dal progresso tecnologico, ma deve al contrario essere una rivendicazione politica dettata dal nostro desiderio di lavorare meno. In un certo senso, al posto che muoverci verso il tradizionale obiettivo della piena occupazione, Inventare il futuro ci mostra come il paradigma accelerazionista debba spingere proprio nella direzione opposta: la piena disoccupazione.
"L'obiettivo del futuro è la piena disoccupazione"- Arthur C. Clarke
Strettamente parallela alla prima rivendicazione emerge dunque la seconda, quella che pretende una riduzione della settimana lavorativa. Diversi sono i motivi che gli autori offrono a sostegno di questa tesi, tra cui vogliamo qui ricordare - per i possibili collegamenti tematici con il celebre accelerazionista Mark Fisher - la necessità di ridurre l’eccessivo stress, ansia e depressione che affliggono tutti coloro che incessantemente lavorano ogni giorno.
Dal punto di vista economico nessuna di queste rivendicazioni è materialmente possibile se non si agisce a livello redistributivo rispetto a quanto viene prodotto nella società globale. Laddove la piena automazione rischia di esacerbare il livello di disuguaglianza economica, è chiaro che occorre un nuovo approccio (radicale) circa le dinamiche di redistribuzione della ricchezza aggregata. Ecco dunque che gli autori invitano i lettori a pretendere la principale delle loro rivendicazioni, quella più centrale, all’interno di tutto il pensiero accelerazionista: l’istituzione di un reddito di base universale. Williams e Srnicek spendono molte energie su questo punto, in particolare nell’analisi dei benefici sociali, individuali, economici, tecnologici e femministi di questa rivendicazione, ma allo stesso tempo ammettono che per permetterne la realizzazione sia necessario rivoluzionare radicalmente la nostra cultura lavorista - il che è la rivendicazione numero 4.
La visione del post-lavorismo è, per gli autori di Inventare il futuro, la visione del post- capitalismo. Ma per compiere questa transizione è richiesta - come del resto viene dimostrato in tutta l’opera - una visione strategica correttamente orientata al successo. Rifacendosi al concetto gramsciano di “egemonia”, Williams e Srnicek dedicano l’ultima parte della loro opera ad un’analisi attenta del percorso strategico che la sinistra deve costruire per appropriarsi del futuro. In sintesi: la sinistra deve dare vita a un progetto di contro-egemonia, capace cioè di spazzare via il neoliberismo dalla sua attuale posizione di dominatore ideologico su scala globale. Tale egemonia, secondo gli autori, deve svolgersi anzitutto su una dimensione culturale: egemonia culturale significa dare vita a narrazioni utopiche che possano attivare le speranze perdute dell’era postmoderna e costituire un vettore catalizzatore verso cui muovere i passi della trasformazione post-capitalista. L’egemonia deve poi essere intellettuale: il pensiero accelerazionista deve riappropriarsi di quegli spazi - università, istituti di ricerca, circoli intellettuali, ecc... - che risultano a oggi pienamente monopolizzati dal pensiero economico neoliberista. Infine, l’egemonia per come viene qui descritta deve essere tecnologico/materiale: non sarà possibile realizzare la transizione al post-capitalismo senza una riappropriazione delle più potenti tecnologie umane - ad oggi in mano a pochi privati - e una loro riformattazione verso obiettivi di vera e propria emancipazione post-capitalista e superamento dei limiti umani.
L’obiettivo ultimo per realizzare il post-capitalismo accelerazionista è solo uno: costruire un nuovo senso comune. In altre parole: acquisire una nuova coscienza, essere consapevoli di una nuova visione universale di un futuro possibile, migliore, di emancipazione e progresso. Accelerare, in questi termini, significa superare i limiti del presente, passare - come si legge nel Manifesto - «dal noto all’ignoto», rompendo la velocità crescente di un orizzonte locale - il capitalismo - oltrepassandolo, lacerandolo dall’interno, fino ad arrivare oltre: al post-capitalismo. Inventare il futuro, in questo senso, rappresenta la guida per eccellenza per chi vuole intraprendere questo percorso.